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Omero – Odissea

La storia è piena di eventi (ci si annoia molto meno che con l’Iliade e non si è costretti a saltare nessun “catalogo delle navi”): dopo i primi libri incentrati sulla ricerca di Telemaco di notizie relative al padre (va a trovare prima Nestore e poi Menelao), troviamo Odisseo sull’isola di Calipso. Su ordine del concilio degli Dei (a cui non è presente Poseidone, il quale odia l’eroe per avergli accecato il figlio Polifemo), Odisseo viene liberato da Calipso e, a bordo di una semplice zattera, naufraga all’isola dei Feaci, dove è accolto da Nausicaa e dal padre Alcínoo. Lì riporta in prima persona il viaggio di cui noi abbiamo letto in terza persona. Quando però l’aedo Demodoco si mette a cantare i fatti di Ilio (in particolare quello del cavallo di legno), Alcínoo vede che il suo ospite si commuove e gli chiede di raccontargli tutta la sua storia. Così, dal libro 9, in un lungo flashback che dura fino al dodicesimo libro compreso, con una breve interruzione nel libro 11, in mezzo alla narrazione dei fatti avvenuti nell’Ade. Odisseo questo narra: partendo da Ilio era arrivato da Cíconi, per poi essere sbattuto qua e in là dalla tempesta e arrivare dai Lotofagi. Da lì, Odisseo e la sua ciurma arrivano alla terra dei Ciclopi, dove avvengono i fatti di Polifemo. Accecato Polifemo (che prega suo padre Poseidone di rendere complicato il ritorno di Odisseo e di uccidergli tutti i compagni), gli eroi ripartono e arrivano all’isola Eolia. Lì vive Eolo (per Omero non è un dio), che imbottiglia tutti i venti più violenti per garantire a Odisseo un ritorno facile, spinto solo da Zefiro. Dopo aver navigato per nove giorni, al decimo, mentre Odisseo si addormenta e la nave è veramente molto vicina ad Itaca, i suoi marinai decidono di aprire l’otre dei venti, immaginando che contenga ricchezze. Liberati i venti, si scatena un uragano e li riporta al largo, di nuovo all’isola Eolia. Lì però Eolo si rifiuta di aiutare di nuovo Odisseo, dicendo “via dall’isola, subito, obbrobrio dei vivi! Non è lecito a me dare aiuto o accompagno a un uomo ch’è in odio ai numi beati.” Senza aiuto, gli uomini si rimettono in mare e arrivano alla terra dei Lestrígoni, dei giganti che distruggono tutte le navi a parte quella dove sta Odisseo. Navigando oltre, arrivano all’isola Eéa, dove vive Circe. Circe, dopo essere stata sedotta da Odisseo, consiglia l’eroe di andare fino alle case dell’Ade e interrogare l’indovino Tiresia per indicazioni sul futuro. Così, Odisseo si spinge fino oltre al fiume Oceano, che nella mitologia omerica circonda la terra. Dopo aver narrato dell’incontro con Tiresia, con la madre Antíclea e con altre anime, Odisseo si interrompe. In questa interruzione Alcínoo lo loda, dicendo che “non pensiamo vedendoti,/ che un ciurmadore o un furfante tu sia, come molti/la terra nera ne nutre, genti di tutte le razze,/fabbricatori di false avventure, di cui nessuno mai saprà nulla.” (versi 363-366).  Alcínoo chiede a Odisseo se ha incontrato alcuni eroi della guerra di Troia, e Odisseo prosegue con il suo racconto, narrando dell’incontro con Agamennone, Achille e Aiace. Tornato al palazzo di Circe a prendere il corpo di un compagno morto (spezzandosi l’osso del collo da ubriaco), Odisseo riparte per il viaggio. Questa volta supera Le Sirene, Scilla e Cariddi ma non riesce a impedire ai compagni, messi a dura prova dalla fame, di mangiare le vacche del Sole. Per questo, una violenta tempesta manda in seguito a fondo la sua nave, uccidendo tutti i suoi compagni e lasciandolo appeso all’albero e alla chiglia. Anche in questo caso il vento lo riporta indietro e Odisseo deve scappare nuovamente a Scilla e Cariddi. Dopo nove giorni, alla decima notte arriva all’isola Ogigia, dove Calipso lo accoglie. E qui interrompe il racconto Odisseo, dicendo: “Ella m’accolse e curò. Ma perché lo racconto?/Già ieri questo ho narrato, qui in sala, a te e alla tua forte sposa: m’è odioso/narrare di nuovo cose già dette.” (libro 12, versi 450-453). Odisseo verrà poi accompagnato dai Feaci ad Itaca e là tramerà, insieme a Telemaco (tornato dai suoi viaggi che abbiamo seguito nei primi libri) e ad Atena (ma anche con l’aiuto del porcaio Eumeo e il bovaro Filezio, rimasti fedeli), la strage dei pretendenti.

Le donne nell’Odissea

Non so perché in fondo speravo, considerato che è un poema successivo, che nell’Odissea le donne sarebbero state rappresentate “meglio” rispetto a quanto avviene nell’Iliade. Non mi sembra: nell’Iliade è chiaro che Briseide e Criseide sono viste in quanto proprietà (anche se non so se è perché donne o perché schiave), ma almeno Andromaca è un soggetto, che pure rinfaccia ad Ettore di abbandonarla per la guerra non tanto facendo leva sui sentimenti, quanto su responsabilità, ponendolo di fronte alla situazione materialmente peggiore nel quale lei si troverebbe senza un marito.

Penelope, invece, mi sembra un passo indietro. Ovvero, un modello di donna che per venti anni piange il marito, ma, ciònonostante, non si merita la piena fiducia di questi, dato che Odisseo preferisce rivelare il suo piano a Telemaco (un giovane che ammette che farebbe fatica a difendersi fisicamente da qualcuno) tenendo invece all’oscuro una donna che ha dimostrato non solo fedeltà, ma anche astuzia (se pensiamo all’inganno della tela). Ovviamente il rapporto non è per niente simmetrico, con Odisseo che non si fa il problema della fedeltà quando va a letto con Circe e Calipso.

L’ospitalità

Interessante come, per mettere in cattiva luce, di fronte al lettore, il personaggio del pretendente Antínoo, Omero (o chi per lui) decida di fargli trattare male un mendicante (in realtà Odisseo trasformato da Atena). Antínoo dice ad Eumeo, il porcaio che ha portato a corte il mendicante:

“O tu, famoso porcaio, perché l’hai portato

in città? non ci bastavano gli altri accattoni,

straccioni schifosi, divoratori di avanzi?”

Nel mondo di Omero, l’ospitalità è sacra. In un altro punto, nel libro 12, si dice

“tutte odiose sono le morti per gli infelici mortali,

ma la più atroce è morire di fame, per fame seguire il destino”

(versi 341-342)

questo dà ancora più dignità alla figura di Odisseo-mendicante, assieme alle parole di Telemaco precedenti all’affronto del pretendente: “Va’ a portar questo all’ospite, e invitalo/a chiedere, a tutti i pretendenti accostandosi:/per l’uomo in bisogno non è buono il pudore” (libro 17, versi 345-347).

Giocare con il tempo

A differenza dell’Iliade, in cui il racconto procede lineare (se si eccettuano le storie di poche righe in cui si presenta la stirpe di qualche guerriero, o il modo in cui è giunto a combattere ad Ilio), l’Odissea gioca tantissimo con il tempo. Si è già descritto come alcuni capitoli centrali sono dedicati a un lungo flashback. Verso la fine, ci sono altri punti in cui diversi personaggi ricordano il passato. Per esempio, con la balia Euríclea (che riconosce una cicatrice mentre lava l’eroe), si fa un salto temporale fino alla pseudo-origine del nome di Odisseo.

“Autòlico, venuto fra il ricco popolo d’Itaca

della sua figlia il figlio neonato trovò;

e glielo pose Euríclea sulle care ginocchia,

appena finí di mangiare, e disse parola, diceva:

“Autòlico, tu ora trova un nome da imporre

al figlio caro della tua figlia; molto da te è stato atteso”.

Autòlico allora rispondeva e parlò:

“Figlia e genero mio, mettetegli il nome che dico:

io venni qui, odio covando contro di molti,

uomini e donne, sulla terra nutrice;

dunque Odisseo sia il nome.(…)”

(libro 19, versi 399-409)

Così, si fa risalire il nome Odisseo all’odio. Questo è interessante, perché il personaggio che abbiamo seguito è odiato da Poseidone e, come ho menzionato, viene descritto da Eolo come “uomo che è in odio ai numi beati”. Questa etimologia (falsa, perché in realtà il nome Odisseo non è di origine greca – ma questo non importa), scoperta solo verso alla fine del poema, getta luce su tutta la storia narrata prima; una sorta di premonizione ritardata, che irradia retrospettivamente tutto il racconto. Una specie di vertigine della finzione.

Altri momenti che mi hanno colpito:

Alla fine del libro quinto, Odisseo, naufragato nella terra dei Feaci, si addormenta (verrà svegliato da Nausicaa). Già si era parlato dell’incredibile tormento della fame; qui, si parla di un’altra forza irresistibile, quella del sonno, della spossatezza:

“Come qualcuno un tizzo nasconde fra molta cenere nera,

laggiù, all’orlo dei campi, perché non ha intorno vicini,

serbando il seme del fuoco, per non andar chissà dove ad accenderlo:

così tra le foglie strette nascosto Odisseo: e Atena

gli versò il sonno sugli occhi, perché gli guarisse più presto

la spossante stanchezza, fasciando le palpebre.”

E niente, semplicemente mi piaceva il modo in cui veniva descritto.

Nel libro sesto, mi piace questa matericità del mare.

“Intanto Odisseo luminoso si lavava nel fiume

dal sale che il dorso e le spalle larghe copriva,

e dalla testa toglieva lo sporco del mare instancabile.” (pp. 224-226)

Per qualche motivo mi piace sempre quando si sottolinea la sporcizia in questi poemi antichi (succedeva già nell’Iliade). Forse mi aumentano semplicemente il senso di realtà, ma non mi sembra per niente banale ricordare al lettore che il mare è sporco; non è neutro, non è “l’idea del mare” – è veramente un mare, con la sporcizia e il sale, è un mare che si attacca alla pelle, un mare schifoso e che fa male.

Omero, Odissea. Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti. Einaudi, Torino, 2014.