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La saga di Gilgameš

Perché l’ho letto? Non sapevo da dove cominciare per colmare i miei buchi e così ho semplicemente preso l’epica più antica a noi conosciuta. Mi intrigava anche il fatto di non averlo mai letto a scuola – anzi, di non averlo nemmeno mai sentito nominare, a scuola. Sapevo che non ci sarebbe stato un dio cristiano e anche questo mi piaceva.

Come l’ho letto? Ho letto integralmente solo la cosiddetta “epopea classica babilonese”, ovvero le dodici tavole attribuite a Sinleqiunnini. In questo volume curato da Giovanni Pettinato sono presenti anche poemi sumerici su Gilgameš, una versione ittita, una redazione accadica, l’epopea mediobabilonese e medioassira e l’epopea paleobabilonese. Queste versioni le ho solo leggiucchiate qua e là.

La storia

La storia è ricca di eventi e fantasiosa. Gilgameš è il sovrano di Uruk e governa in modo un po’ dispotico: obbliga i giovani a ballare per lui e ha istituito lo jus primae noctis. Gli dei decidono così di creare una controparte, un essere umano che possa dare filo da torcere al despota e così alleviare la pressione sugli abitanti di Uruk. Nasce così, da “un grumo di creta” piantato nella steppa, il primitivo Enkidu, che bruca l’erba con le gazzelle, beve nelle pozze con i bovini e copula con gli animali selvatici.

Enkidu infastidisce (e spaventa) anche un cacciatore, dato che neutralizza le sue trappole e fa scappare gli animali. Così il cacciatore torna a casa e chiede consiglio al padre, che gli dice di rivolgersi a Gilgameš. Gilgameš invia la prostituta sacra Šamhat da Enkidu, per – e questa cosa mi sembra molto interessante – iniziarlo alla civiltà attraverso il sesso. E così accade: dopo aver fatto sesso con Šamhat, Enkidu perde il suo rapporto privilegiato, di fratellanza, con gli animali e non gli resta che cominciare a vivere da uomo, per così dire, civilizzato.

Così, dalla steppa, si dirige a Uruk, con l’idea di confrontarsi con Gilgameš. I due, dopo essersi scontrati, diventano amici. Insieme fanno diverse imprese: uccidono Hubaba, guardiano (o demone) della Foresta dei Cedri; poi, in seguito al rifiuto di Ištar da parte di Gilgameš, sconfiggono il toro celeste da lei invocato. In questa occasione, Enkidu fa il bullo con Ištar, salita sulle mura di Uruk. Enkidu infatti strappa una spalla del Toro celeste e gliela butta in faccia, minacciandola: “Se io ti potessi raggiungere, farei lo stesso anche con te, e appenderei i suoi intestini alle tue braccia!“. Insomma, una roba supersplatter che non piace agli dei, i quali condannano Enkidu a morte. E, poco dopo, Enkidu in effetti muore.

Dicevo che la storia è ricca di avvenimenti e forse, già così, può sembrare che sia successo molto. Eppure non è ancora nulla, se lo si confronta con le ultime quattro tavole. Per il mio gusto personale è dopo la morte di Enkidu che comincia la parte più interessante. Gilgameš si rende conto della propria mortalità, per riflesso della morte dell’amico: “Non sarò forse“, dice a sè stesso piangendo e vagando per la steppa “quando io morirò, come Enkidu?“. Sopraffatto dalla paura della morte, il re di Uruk intraprende un viaggio verso l’unico essere umano che abbia mai ottenuto l’immortalità, ovvero Utanapištim. Questo personaggio ricorda molto Noè – anche lui, infatti, è scampato a un diluvio che doveva annientare l’intero genere umano grazie a un’arca. Il viaggio di Gilgameš comincia dalla steppa, procede per le montagne Mašu presidiate dagli uomini-scorpione (come dicevo, la fantasia non manca), attraverso ventiquattro ore di buio per arrivare al giardino del dio Sole. Da una riva poco lontana, grazie al traghettatore Uršanabi, il nostro eroe solcherà poi le acque mortali per giungere infine al cospetto di Utanapištim. Questi gli racconta la storia del diluvio (le somiglianze con il racconto biblico – per quanto possa ricordarmi – sono impressionanti) e gli rivela che la sua immortalità è una sorta di “eccezione” voluta dagli dei. Gilgameš si sottopone alla prova del sonno, sperando che il superamento della stessa potrebbe provocare una nuova riunione degli dei, per decidere di assegnargli l’immortalità. Purtroppo per lui – e per il sollievo del lettore, che non si trova di fronte un eroe così monolitico come può sembrare all’inizio – Gilgameš fallisce. Fallisce pure male, perché avrebbe dovuto non dormire per sei giorni e per sette notti, e invece si addormenta subito. Un po’ come premio di consolazione, il re di Uruk ottiene di portarsi a casa la pianta della giovinezza. Sulla via del ritorno, però, un serpente si avvicina e la divora, perdendo istantaneamente la vecchia pelle. Gilgameš ritorna così a casa a mani vuote, ed è infine chiaro perché il proemio lo presentava sia come “l’uomo che vide le profondità, persino le fondamenta della terra“, ma anche come colui che “sperimentò ogni possibile sofferenza“.

Qualche osservazione

Una cosa che mi ha sorpreso in positivo è la visione della vita dopo la morte espressa nell’Epopea classica babilonese: come dice Enkidu al suo amico Gilgameš, ritornando brevemente dagli inferi nella dodicesima tavola: “Il mio corpo che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, il mio corpo è mangiato dai vermi, come un vecchio vestito.

Anche il rapporto tra Enkidu e Gilgameš mi sembra molto interessante. Non capisco come faccia Pettinato ad escludere categoricamente, nel suo commento, la possibilità di un amore omosessuale tra i due personaggi. In fondo, è lui stesso ad aver reso in italiano questa frase di Enkidu:

Il mio corpo, che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva

La madre di Gilgameš, inoltre, interpretando un sogno del figlio, preannuncia che Enkidu sarà un uomo che il figlio amerà “come una moglie” e che “abbraccerà forte”. Ad ogni modo, se Pettinato avesse ragione, il loro rapporto non sarebbe meno eteronormativo per i canoni di oggi, anzi: pensate a un’amicizia tra maschi in cui ci si “abbraccia forte“, a un amico che si ama “come una moglie“.

Un’altra sorpresa è stata la concretezza di certe immagini, pur in un contesto incredibile o fantastico. Nella battaglia con il “toro celeste” (figura del “fantastico”), questo animale “gli sputò in faccia la sua bava, con la sua stessa coda gli spruzzò la sua merda“. Quando Gilgameš lo uccide, affonda la sua spada “tra le corna e i tendini della nuca“. Sopra al cadavere di Enkidu, Gilgameš dichiara di aver pianto “per sei giorni e sette notte” fino a che “un verme non è uscito fuori dalle sue narici“. Negli inferi, chi è morto annegato, si dibatte “come un bue mangiato dai vermi“. Sono cose che a qualcuno potrebbero fare un po’ schifo, ma a me colpiscono per la loro concretezza, per la loro precisione. Nonostante il mondo di Enkidu e Gilgameš abbia molti elementi fantastici e sia governato da leggi sovrannaturali, questi dettagli hanno aumentato la mia impressione di realtà. Insomma, bastava un po’ di bava, merda e vermi – sono un lettore semplice.

Questa tendenza mi sembra presente sin dall’inizio, quando, descrivendo la città di Uruk, al lettore si forniscono persino le misure: “un miglio quadrato è la città, un miglio quadrato sono i suoi orti, un miglio quadrato sono le sue cisterne oltre alle terre del tempio di Ištar. Per tre miglia quadrate si estende Uruk senza contare i suoi terreni agricoli.”

Non si tratta di un testo difficile, anche se a volte è molto ripetitivo. Per esempio, sia la taverniera Siduri, sia il traghettatore Uršanabi, sia l’eroe sopravvissuto al diluvio universale Utanapištim chiedono a Gilgameš, con le stesse parole, come mai abbia un aspetto così stravolto. E a tutti questi personaggi, Gilgameš risponde alla stessa maniera, con le stesse identiche parole. Oppure, quando Gilgameš deve attraversare le buie montagne Mašu, nelle quali l’oscurità dura per “dodici doppie ore”, dobbiamo sorbirci tutte le ore, in questa maniera:

Egli ha percorso due doppie ore:

densa è l’oscurità, non vi è alcuna luce.

Non gli è concesso di vedere nulla dietro di sè.

 

Egli ha percorso tre doppie ore:

densa è l’oscurità, non vi è alcuna luce.

Non gli è concesso di vedere nulla dietro di sè.

 

Egli ha percorso quattro doppie ore:

densa è l’oscurità, non vi è alcuna luce.

Non gli è concesso di vedere nulla dietro di sè.”

 

E così via. Questa non è certo una critica – è chiaro che questo modo di scrivere si riferisce a un’idea molto diversa di letteratura e di lettore. Non è una critica, ma solo una considerazione: la lettura di Gilgamesh è faticosa più per questo genere di cose che per vocabolario o concetti espressi, almeno per me.

In conclusione, una lettura che mi ha colpito per molti aspetti, dalla ricchezza immaginativa (basti pensare alla varietà delle ambientazioni: Uruk, la steppa, la foresta di Cedri in Libano, le montagne oscure di Mašu, il giardino del dio Sole, le acque di morte, gli inferi visti come una “casa buia”, una “casa della polvere”), all’uso della lingua, con i dettagli anche scabrosi a dare concretezza al testo. Eppure forse la cosa più sorprendente è la schiettezza, che si riflette anche in quei dettagli di cui sopra, la brillante mancanza di pudore con cui vengono trattati temi senza tempo come quello dell’amicizia o della paura della morte.