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Omero – Iliade

Perché? Per andare avanti, in ordine più o meno cronologico, dopo aver letto la storia di Gilgameš, a leggere la letteratura che non ho letto a scuola (cioé, nel mio caso, quasi tutta).

La struttura è molto lineare. Ogni tanto veniamo informati della biografia di qualche eroe (spesso quando sta per morire), ma di solito questo non occupa più di un paio di righe. La storia: nelle tende, i capi degli eserciti che stanno assediando Troia, identificano le cause della peste in una punizione divina per non aver accettato il riscatto di una schiava, Criseide, e non averla restituita al padre. Agamennone, incalzato da Achille, accetta di restituire la ragazza, ma al suo posto prende la schiava di Achille, Briseide. Per questo Achille si offende terribilmente, ed ha inizio la sua famosa “ira”.
Ecco io, non avendo mai letto l’Iliade da piccolo, pensavo che l'”ira funesta del pelide Achille” (qui tradotta diversamente da Rosa Calzecchi Onesti) del proemio che comunque ci hanno fatto imparare a memoria alle medie, si riferisse alla furia con cui Achille si vendicava di Patroclo. Eppure, in effetti, non aveva senso: i lutti, sempre menzionati nel proemio, erano degli Achei, cioè dei greci, e non dei Troiani (chiamati anche Teucri). E infatti l’ira di Achille è l’essere offeso di Achille per il torto subito da Agamennone. L’ira di Achille è quella che lo porta ad essere assente per la maggior parte dell’Iliade. Grazie alla sua assenza, i greci non solo non riescono ad avanzare (nonostante siano narrati episodi favorevoli agli achei, come nel libro sulle gesta di Diomede), ma, anche e soprattutto grazie alla promessa fatta da Zeus alla divinità marina Teti, la quale, madre di Achille, ha supplicato Zeus di dare gloria al figlio mettendo in difficoltà gli achei in sua assenza, si trovano ricacciati verso le proprie navi, a cui i teucri (i troiani) minacciano di dare fuoco.

Qui entra in scena Patroclo, che desideroso di rendersi utile (ma anche supportato da Achille), si veste con le armi di Achille per combattere in sua vece. All’inizio sembra andare tutto bene, ma, sabotato da Apollo, viene ucciso (anche) da Ettore. Quando Achille lo viene a sapere, decide di interrompere l’ira e di vendicare l’amico. Questo porta allo scontro con Ettore (che per il lettore non è un estraneo, né una figura piatta, dato che lo abbiamo visto incontrare la moglie e il figlio, l’abbiamo visto, si potrebbe dire, nella sua intimità familiare), il cui esito è già deciso da tempo: Ettore muore, Achille prende il cadavere per legarlo al carro e trascinarlo in giro. In seguito, gli déi decidono di mandare Teti a convincere il figlio perché accetti il riscatto di Priamo, il padre di Ettore, per il corpo del figlio. I due, uniti dal dolore provocato dalla brutalità della guerra (Priamo ha perso l’ultimo figlio, Achille il migliore amico), sembrano capirsi molto bene e Achille non solo accetta di restituire il corpo, ma promette a Priamo di concedere ai teucri tutto il tempo necessario per seppellire Ettore degnamente, sospendendo le ostilità.

Personalmente, ho trovato frustranti le ripetizioni (cosa che potevo aspettarmi dopo Gilgameš): ogni volta che le persone parlano si dicono “parole fugaci” (immancabilmente), ogni volta che un eroe è introdotto (e spesso anche quando compare una seconda, una terza volta) ci è detto di chi è figlio. E poi mi ha dato molto fastidio che tutti gli punti cruciali della storia fossero risolti grazie a un intervento divino. La stessa guerra sarebbe finita all’inizio del libro senza un intervento di questo tipo: Menelao e Paride si sfidano a duello, Menelao vince, e dovrebbe semplicemente tornare a casa con Elena. Sono gli dei che vogliono vedere Ilio distrutta, però, che convincono un arcere a ferire Menelao a duello concluso, per riscatenare il conflitto. Quando Patroclo ci lascia la pelle, non è tanto perché commetta un qualche errore, ma perché Apollo lo sabota. In seguito Ettore, nello scontro in cui perisce con Achille, è ingannato da Atena. Persino durante i giochi funebri in onore di Patroclo, Odisseo vince una gara perché “prega”, mentre un tipo perde la gara con l’arco perché non promette un sacrificio agli dei.

I dettagli, a volte anche cruenti, hanno reso questo libro sopportabile per me. Sapere che i combattenti cercano la gloria tra sudore, sangue e sporcizia ed essere ricordati più volte del sangue fatto schizzare contro i carri dagli zoccoli dei cavalli, evita che quest’opera sia una specie di grande manifesto probellico, ma anzi, lo rende, per lo meno al mio sguardo di lettore contemporaneo, quasi il contrario. Mostra la guerra nel suo essere sporca, sudicia, polverosa.

Leggere l’Iliade non è stata una passeggiata; qui di seguito una sorta di diario che lo testimonia (con qualche verso che mi ero appuntato):

1 ottobre

Dèi buffi quando litigano. Ho saltato l’elenco delle navi.

tra il 2 e il 5 ottobre

Nel libro quinto, “le gesta di Diomede”, vedo che gli eroi “sudavano così nella mischia selvaggia”. Contrariamente a quello che mi aspettavo, la guerra è descritta nella sua sgradevolezza, nell’essere anche sudore e polvere. Poco prima del verso “sudavano così nella mischia selvaggia”, trovo questo passaggio:

Come il vento solleva la pula sulle aie sacre,

mentre gli uomini vagliano, quando Demetra bionda

grano e pula separa al soffio dei venti,

i mucchi di pula biancheggiano; così allora gli Achei

eran bianchi di sopra, della polvere che in mezzo a loro

su fino al cielo di bronzo levavano i piedi dei cavalli,

mentre di nuovo sorgeva la mischia, giravano i carri gli aurighi.”
(libro quinto, versi 499-505)

ho letto il colloquio di Ettore e Andromaca. Bello, per almeno un attimo, sentire la voce di una donna, quando Andromaca dice al marito: “tu non hai compassione del figlio così piccino, di me sciagurata, che vedova presto sarò“.

Mi piace molto (mi sembra molto realistico) il momento in cui Astianatte, il figlio di Ettore, si ritrae spaventato dall’aspetto guerresco del padre:

“E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre:

ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura

si piegò con un grido, atterrito dall’aspetto del padre,

spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato,

che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo.”

Certo per apprezzarlo è meglio sapere (io non lo sapevo e ho controllato solo dopo) che la parola cimiero significa “ornamento o pennacchio dell’elmo”.

7 ottobre

Finito di leggere il decimo libro dell’Iliade, con la morte di Dolone e la scorreria di Odisseo e Diomede. All’inizio una nota diceva che è probabilmente un libro di un tardo imitatore, che non ha nessun effetto su quanto succeda dopo, ma a me è piaciuto e mi è sembrato uno dei meno noiosi fin qui. Alla fine, dopo la loro “missione”, Ulisse e Diomede fanno il bagno nel mare. Non so se mi piaccia di più come è descritto il bagno del mare alla fine del libro oppure il semplice fatto che un bagno del mare (di notte) debba essere la scena che chiude un capitolo abbastanza cruento:

“E intanto lavarono il molto sudore nel mare,

entrandovi dentro, intorno alle gambe, alla schiena, alle cosce;

poi, quando il flutto del mare il molto sudore

lavò dalla pelle e rinfrescò il loro cuore,

entrando nelle tine lucide fecero il bagno.”

Ero spaventato che questa Iliade sarebbe stata troppo su Achille e invece per il momento compare davvero poco. Ci ho pensato leggendo questo capitolo, dove i protagonisti sono Diomede e forse il mio personaggio preferito, Odisseo.

8-9 ottobre

Trovo quella cruenta precisione che avevo trovato anche in Gilgameš; sappiamo quasi sempre come e dove vengono colpiti gli eroi:

E uno il cimiero dell’elmo a coda equina colpì

in alto, sotto il pennacchio, l’altro colpì l’assalitore alla fronte

sopra la canna del naso; scricchiolarono l’ossa, gli occhi

gli caddero ai piedi, nella polvere, sanguinolenti“.

(libro tredicesimo, versi 614-617)

10 ottobre

Sbirciando in avanti (sto leggendo “i fatti di Patroclo”) vedo che il libro diciannovesimo si chiama “l’interruzione dell’ira”. Fino ad allora Achille non fa niente? Manda avanti Patroclo. Sappiamo già come andrà a finire, ma questo aumenta la tensione. La sporcizia, la “polverosità” della guerra, nella descrizione del cadavere di Sarpedone:

Neppure un uomo sagace Sarpedone glorioso

poteva più riconoscere: di dardi, di sangue, di polvere

era colpito da cal capo alla punta dei piedi

(Libro sedicesimo, versi 638-640)

interessante: il capitolo su Patroclo non finisce esattamente con la morte di Patroclo, ma con una fuga.

12 ottobre

“(…), ma Achille lo colpì al fegato con un pugnale

Il fegato schizzò fuori e nero sangue colandone

riempì la veste (…)”

(libro ventesimo, versi 469-471)

E ancora a Deucalíone, dove s’uniscono i tendini

del gomito, là il braccio passò con la punta del bronzo,

s’arrestò quello col braccio fatto pesante,

e vide vicina la morte. Achille con il pugnale gli troncò il collo

e lungi con tutto l’elmo gettò il capo; il midollo

schizzò fuori dalle vertebre e il tronco giacque a terra disteso.”

(libro ventesimo, versi 478-483)

Così sotto Achille magnanimo i cavalli unghie solide

calpestavano insieme cadaveri e scudi; l’asse di sangue

era tutto insozzato e le ringhiere del carro,

che colpivano schizzi da sotto gli zoccoli dei cavalli

e dai cerchioni; così ardeva di conquistarsi gloria

il Pelide, lordo di fango sanguigno le mani invincibili.

(libro ventesimo, ultimi versi).

 

13 ottobre

Ho quasi finito. Sto leggendo il libro nel quale Patroclo torna dall’Ade, nel sogno di Achille (ovviamente mi ha fatto pensare a quando Enkidu torna dagli inferi per parlare a Gilgameš).

14 ottobre

Dopo i noiosissimi giochi funebri per  Patroclo, nei quali ancora una volta l’intervento degli dei sembra essere più importante delle abilità degli eroi, la bella sorpresa dell’ultimo libro. Qui Achille, convinto da Teti (incaricata di convincerlo dagli altri dei), accetta di restituire il corpo di Ettore a Priamo. Quando Priamo arriva nella sua tenda, i due si riconciliano. Questo è strano, ma in qualche modo ha senso, dato che entrambi i personaggi sono uniti dal dolore della perdita. E così abbiamo questa scena:

Poi come la voglia di cibo e bevanda cacciarono,

Priamo Dardanide guardava Achille, ammirato,

tanto era grande e bello: sembrava un nume a vederlo.

E Achille a sua volta stupiva di Priamo Dardanide,

guardando il volto nobile e udendo la voce.”

Il poema continua con la frase “Quando si furon saziati di guardarsi l’un l’altro” che, in un altro contesto, farebbe pensare a due innamorati. Quello che succede dopo è ancora più sorprendente: è Achille a chiedere a Priamo di dirgli di quanto tempo hanno bisogno i troiani per seppellire Ettore e gli promette di sospendere la guerra per tutto il tempo necessario.

In questo libro, proprio a ridosso della fine, sono presenti tre voci di donna: Andromaca, la madre di ettore Ecuba e la cognata, Elena.