Skip to content

Einar Kárason – Gabbiani nella tempesta

Ho rischiato di annegare nel vocabolario tecnico di questo romanzo. Io che ho problemi a distinguere la poppa dalla prua (o si dice prora?), ho dovuto lottare con parole del genere: poppavia, proravia, verricelli salparete, castello di prua, cassero di poppa, ponte di coperta, argani salpacavi, ali di plancia, sestante, solcometro.

Se fossi stato un lettore più paziente, avrei capito di più. E invece spesso ho letto non capendo, sperando che il contesto mi avrebbe aiutato e sorvolando anche quando il contesto non bastava. Credo lo stesso che questo libro mi abbia dato molto.

Il libro è la storia di un peschereccio islandese intrappolato in una tormenta, al largo dell’isola di Terranova. Per sperare di salvare la pelle, l’equipaggio deve rompere il ghiaccio che si forma sulla nave, liberarsi di pezzi della nave troppo ghiacciati e compiere una manovra pericolosa. All’inizio, ero molto colpito dalla descrizione del ghiaccio. Mi sembrava già un bel libro solo per questa immagine dei marinai che rompono il ghiaccio e così facendo riportano alla luce parti della nave, per poi vedere il ghiaccio riformarsi e ricoprirle subito dopo. Mi sembrava una metafora della scrittura, con il tentativo dello scrittore di rendere visibile uno spiraglio di verità, e addirittura una metafora della vita, nella sua assurdità. Andando avanti, però, mi è venuto il sospetto che la cosa più importante di questo libro sia la sua struttura; nello specifico, il meccanismo con cui l’autore è capace di raccontare una storia di resistenza collettiva non rinunciando alle individualità.

L’autore gioca con il punto di vista, passando da una visione d’insieme, in cui tutto l’equipaggio è visto come interdipendente e nella sua unità d’intenti (sopravvivere) a sortite nell’esperienza individuale dei suoi membri. E così alcuni personaggi hanno più spazio di altri, come Lárus e il nostromo.

Come passa dalla visione d’insieme alla storia personale? Per esempio così:

Il Máfur si raddrizzò subito sensibilmente e Lárus, il marinaio più giovane, si sentì molto sollevato, nonostante fosse strano voltarsi e veder scomparire nell’oceano il natante che li avrebbe dovuti portare in salvo se la situazione fosse peggiorata.

Quando era salito a bordo della nave ormeggiata nel porto di Reykjavík il ventinove gennaio, più di una settimana prima, Lárus era eccitato e impaziente, sebbene sua madre che lo accompagnava insieme a suo padre, fosse angosciata da cattivi presentimenti e sostenesse di aver fatto brutti sogni. (…) Il padre di Lárus aveva lavorato per molti anni sulle navi per la pesca all’aringa e dunque, lì dal punto vicino alla jeep da cui rimiravano la nave, poteva affermare con cognizione di causa che, del Máfur, particolarmente superbe erano proprio le scialuppe.

Nelle righe qui sopra, un paragrafo si chiude focalizzandosi su un personaggio e il paragrafo successivo si apre con un flashback di questo personaggio. In questo caso, non solo: l’oggetto guardato dal giovane marinaio è lo stesso che, nel flashback, viene commentato dal padre.

Una cosa simile succede con il personaggio del nostromo. Il nostromo compare in un flashback dedicato a Lárus, mentre viene caricato sulla nave a forza, ubriaco, da altri due marinai. Lárus, guardandolo, si ricorda di aver fatto un viaggio insieme a lui; poi, dopo un po’, scende in cabina e lo ritrova che russa. Allora ricorda un episodio della loro esperienza comune ed è qui che il personaggio, da oggetto quasi ridicolo, stereotipo vivente (il marinaio ubriaco), diventa un personaggio attivo. Nel ricordo del giovane marinaio, il nostromo aveva risolto un problema con le cisterne. Il paragrafo termina con il gesto risolutore del nostromo, che con una chiave inglese sistema la chiusura. Nel paragrafo successivo, il nostromo ha completato il passaggio da figura di sfondo a personaggio di rilievo e scopriamo cosa ha fatto da un viaggio all’altro, dalla sua prospettiva, nonostante la narrazione in terza persona. Ecco come avviene tutto ciò concretamente nel testo:

Quando Lárus era tornato di sotto, la cabina non era più deserta, su uno dei lettini giaceva completamente vestito e russante il pezzo d’uomo che i compagni avevano faticato a far salire a bordo poco prima, e Lárus allora immediatamente lo riconobbe, era lo stesso nostromo del viaggio fatto su un altro peschereccio prima di Natale, nel buio dell’Atlantico settentrionale. (…) Durante l’ultimo viaggio, sull’altro peschereccio, nel buio, ben oltre il Circolo polare, era successo che una delle chiusure di una cisterna non tenesse bene (…). Gli ufficiali di macchina avevano cercato in ogni modo di stringere la chiusura, alla fine ci avevano provato usando una chiave giratubi lunga come un manico di scopa e ci avevano fatto forza in tre, ma pur cercando di stringere quanto più potessero erano riusciti a farla girare solo di pochissimo, comunque non a sufficienza, e allora il nostromo, presa una chiave inglese si era avvicinato alla chiusura e usando una mano sola le aveva dato un mezzo giro, quanto bastava.

Dopo quel viaggio nel buio dell’Artico, il nostromo non vedeva l’ora di arrivare a casa, di poter sentire la terraferma sotto i piedi, ma soprattutto di incontrare la propria donna e la figlia di lei.” (pp. 46-51)

A parte il fastidio di leggere un’espressione come “propria donna”, sono rimasto colpito per questa capacità di rendere personale un racconto che si preannunciava collettivo e che, rimane, comunque, la storia di una collettività che deve lavorare insieme, e in maniera perfettamente coordinata, per sopravvivere.

Un’altra cosa bellissima – benché spaventosa – è il paragrafo che chiude l’intero libro, dal punto di vista del marinaio che ha raccontato la storia. Mi sembra che completi, in qualche modo, l’immagine iniziale dei marinai che rompono il ghiaccio. Così facendo, loro rendevano visibili elementi della nave, li riportavano, per così dire, in superficie. Chi ha raccontato la storia, ha reso visibile qualcosa che altrimenti sarebbe andato dimenticato. E così, dopo che il motivo della visibilità è stato presente dall’inizio alla fine della narrazione, è normale che l’ultima preoccupazione debba essere per chi non sarà più visibile a nessuno, per chi non verrà più, probabilmente, riscattato dal buio dei fondali e dell’oblio:

“(…) e non vedranno mai più nessun essere umano, né gli esseri umani rivedranno loro. A meno che non siano magari così fortunati da risalire in superficie nelle reti dei pescherecci che in futuro batteranno quella stessa zona. Quando verranno trainati in superficie dalle pesantissime profondità dell’oceano, torneranno a galla con le pance piene d’aria e forse con lo stomaco tanto gonfio da uscirgli dalla bocca, come quello degli scorfani. Ancora adesso, la notte, io stesso mi vedo affiorare così, nella rete insieme agli altri.”


 

Einar Kárason, Gabbiani nella tempesta. Traduzione di Stefano Rosatti. Torino, Einaudi, 2020. Come tutti i libri di cui parlo qui, è disponibile alla biblioteca comunale di Casalecchio di Reno.