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Han Kang – La vegetariana

Se da un lato voglio recuperare le letture in senso cronologico, dall’altro voglio ampliarle in senso geografico. Non ci avevo pensato in realtà, fino a quando non mi sono reso conto che, più o meno per caso, stavo leggendo uno scrittore islandese dopo averne letto uno cileno.

In biblioteca, questa volta, cercavo qualcosa scritto da una donna. Non è una questione di quote rosa. Il punto è che non voglio ritrovarmi a leggere solo cose scritte da una certa fetta della popolazione, non voglio formarmi solo su scritture prodotte da chi aveva il tempo, lo spazio e la considerazione sociale per farlo più facilmente. E così, dopo aver rimandato L’ospite d’onore di Joy Williams e La campana di vetro di Sylvia Plath, dopo aver riportato indietro Via Ketelin dopo qualche pagina, i miei occhi sono caduti su questa scrittrice nata in Corea del Sud, che non avevo mai sentito nominare. Il titolo mi piaceva, ma è stato lo shock della prima frase a incuriosirmi:

“Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante.”

Leggendo l’inizio di questo libro, ho pensato che fosse una satira. Mi sembrava che ci fossero due personaggi principali, la letterista di manhwa Yeong-hye e suo marito, una specie di signor Bovary ancora più meschino. Per avere un’idea di quanto sia meschino, basta continuare il paragrafo iniziale:

“Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno. Né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, colorito itterico e malaticcio, zigomi un po’ sporgenti: quella sua aria timida e giallognola mi disse tutto quello che mi occorreva sapere di lei.”

Il narratore della prima parte è il marito, ma anche dal suo punto di vista limitatissimo, si può intravedere come Yeong-hye sia in realtà una persona con una vita intellettuale più interessante di quella del coniuge:

Mentre io trascorrevo il pomeriggio oziando con il telecomando in mano, lei si chiudeva nella sua stanza. Probabilmente passava il tempo a leggere, che era in pratica il suo unico svago. Per qualche incomprensibile ragione, la lettura era un’attività in cui era capace di immergersi sul serio – anche se i libri che leggeva sembravano così noiosi che non mi veniva voglia nemmeno di dargli un’occhiata.” (pp. 14-15)

Mi sembrava geniale far narrare da un coglione la propria coglionaggine.

Leggendo la prima parte, ho adorato questo libro, anche se ho pensato di averlo capito troppo presto. Mi piaceva che una delle cose che facevano incazzare il protagonista non fosse tanto l’essere vegetariana della moglie, ma l’esserlo per motivi non razionali, ma per aver fatto un sogno. Questo terrore dell’irrazionalità, che mi sembra serpeggi tra molti miei conoscenti maschi bianchi etero (e di cui io stesso non posso dire di essere immune), doveva essere raccontato, e mi è piaciuto molto come lo fa Han Kang. Le ironie dei colleghi del marito a una cena di lavoro, il modo oppressivo con cui i familiari cercano di obbligare Han Kang a mangiare carne – tutto questo mi sembrava familiare: se non era accaduto a me, personalmente, era accaduto a qualche vegano di mia conoscenza. Però, proprio quando pensavo di aver capito il romanzo, quando mi ero ormai convinto che il testo sarebbe andato avanti così, la protagonista, al pranzo di famiglia, si taglia le vene ai polsi. Con questo gesto, cambia violentemente l’equilibrio del romanzo e, poco dopo, finisce la prima parte e la narrazione del marito.

La seconda parte è una narrazione in terza persona, anche se il punto di vista predominante è chiaramente quello del cognato di Yeong-hye, un videoartista che precedentemente era stato descritto dal narratore della prima parte con queste parole:

“Era diplomato all’Accademia di belle arti e si dava arie di artista, ma non contribuiva al bilancio familiare con un solo centesimo. Certo, possedeva qualcosina che aveva ricevuto in eredità, ma non guadagnava uno stipendio – in effetti, le sue attività si limitavano a starsene con le mani in mano senza fare un accidenti.” (p.41)

In contrasto con il narratore della prima parte, il cognato non trova affatto “insignificante” Yeong-hye. Forse la capisce di più del marito, sicuramente ne è più affascinato, anche se questo lo porta, per assurdo, a trattarla ancora di più come un oggetto. Inoltre, concentrato su un progetto artistico (che prevede proprio la partecipazione della cognata), trascura la moglie (la sorella di Yeong-hye) e il figlio piccolo.

Come emerge più chiaramente dalla terza parte, una narrazione che pur mantenendo la terza persona è evidentemente scritta dal punto di vista della sorella di Yeong-hye, nessun maschio si salva in questo libro. Se nella prima sezione potevamo assistere allo stupro di Yeong-hye da parte del marito e alla violenza del vecchio padre, verso la fine della seconda parte e da un altro stupro intraconiugale visto per quello che è solo nella terza parte (dagli occhi di chi l’ha subito), capiamo che anche il personaggio del cognato non sappia cosa sia il consenso.

Eppure questo libro è molto di più. Contiene una feroce critica al patriarcato, ma non si esaurisce in essa. “La vegetariana” è un libro che mi ha fatto vergognare, perché mi ha fatto sentire superficiale. Ho subito pensato di aver capito il personaggio della vegetariana, Yeong-hye, quando invece non esaurisce mai, nemmeno alla fine, almeno parte del suo mistero. Ho poi pensato di aver capito almeno il marito, e mi fa schifo ammettere che nelle prime righe pensavo fosse un personaggio positivo, perché sembrava capire la cognata. Ed, esteticamente, mi sono vergognato per aver pensato che fosse “solo” una satira molto ben scritta. Nella terza parte (le tre parti ci permettono di muoverci attorno alla vegetariana come se fosse una scultura), l’unica a mostrare il punto di vista di una donna, emerge come quella di Han Kang sia anche una profonda riflessione su cosa significhi essere animali-umani, appartenere al regno animale invece che a quello vegetale, incarnare – per puro caso – una possibilità di vita e non un’altra.


Han Kang, La vegetariana. Traduzione (sembra dall’inglese) di Milena Zemira Ciccimarra. Milano, Adelphi, 2016. Come tutti i libri di cui scrivo qui, è disponibile alla biblioteca comunale di Casalecchio di Reno.